Fase 2 e oltre: il cambio di paradigma che ci attende

Quale paradigma ci attende nel post Covid-19? Ciascuno di noi dovrà diventare una start-up, tutti saremo costretti a reinventarci

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Fase 2

di Alan Friedman |

La Fase 2 è arrivata. La parziale riapertura dell’economia italiana, come quella che sta avendo luogo in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, è piena di rischi e di opportunità. È irta di pericoli e presenta anche diversi motivi di confusione.

Mentre i politici e gli esperti sfilano nei talk show esibendosi senza sosta nel circo televisivo e contraddicendosi spesso, troppo spesso; mentre i governatori di alcune regioni battibeccano con Roma e anche con i loro omologhi del Nord e del Sud (scendendo talvolta a livelli non proprio edificanti); mentre milioni di italiani si lamentano della mancanza di regole chiare, lineari e impostate secondo una logica comprensibile; mentre le piccole e medie imprese sono costrette ad affrontare tempi troppo lunghi per strappare ai tentacoli della burocrazia la liquidità di cui hanno un disperato bisogno; mentre le partite Iva, gli autonomi e i dipendenti languono nell’attesa della cassa integrazione o di un reddito di emergenza… noi non possiamo limitarci a ragionare sul presente. Non possiamo fermarci al qui e ora.

Oltre la Fase 2

È tempo di guardare oltre la Fase 2 e di cercare di comprendere i cambiamenti che ci attendono, che saranno giganteschi ed epocali. Il nostro stile di vita cambierà. Tutto il mondo cambierà.  Dopo il Covid-19 nulla sarà più come prima. Non torneremo alla “Vecchia Normalità”. Ci sarà una “Nuova Normalità”, nell’economia, nel lavoro, nello sport, nell’intrattenimento, nella moda, nella nostra vita di tutti i giorni, nel modo in cui andiamo al ristorante, facciamo shopping, usiamo la tecnologia, proteggiamo l’ambiente, sviluppiamo la green economy, e molto, molto altro. 

Forse, cambieremo persino il nostro approccio ai valori umani fondamentali. E sarebbe un bene. Ci saranno più disparità sociali? O andremo incontro a un’era di maggiore equità? Non lo sappiamo. La recessione globale, ormai certa, degenererà in qualcosa di peggiore? È possibile, ma speriamo di no. Lo squarcio che si aprirà nel tessuto industriale italiano sarà così profondo da lasciare danni strutturali? Probabile, ma quanto saranno gravi? Non lo sappiamo. Quante piccole imprese non riusciranno a resistere? Quante falliranno? Probabilmente più di quante pensiamo. E i nostri figli? Come li educheremo? Con il distanziamento sociale, certo, ma come di preciso? Non ne abbiamo idea. Le Università cambieranno per andare incontro all’esigenza di insegnare tutta una nuova serie di conoscenze? Forse sì. L’estremismo politico e il populismo torneranno a flagellarci anche dopo che la crisi del Coronavirus sarà finita? Forse.

Una Fase 2 per l’economia e la società

Tante, tantissime domande, poche risposte chiare. Ma lasciatemi provare, con grande umiltà, a proporre alcune riflessioni. Tanto per cominciare: sì, i danni economici saranno profondi.  E la guarigione sarà lenta. Ci aspetta un periodo lungo, tra i 18 e i 24 mesi almeno, prima che si possa sperare anche solo di avvicinarci a un’economia normale e funzionante. Dopo il crollo del Pil italiano, che potrebbe essere intorno al 10% nel 2020, la ripresa nel 2021, anche se dovesse toccare i cinque punti percentuali, non riuscirà probabilmente a recuperare neppure la metà di quanto perdiamo oggi. 

Il momento della verità arriverà nel 2022, quando si vedrà se torneremo al prodotto interno lordo pre-Coronavirus nell’arco di due o tre anni, o se al contrario si ripeterà lo stesso fenomeno del 2008-2009, quando ci abbiamo messo un intero decennio a risalire ai livelli del 2007. Se la seconda ondata del Covid-19 dovesse colpire nell’autunno del 2020 o nell’inverno 2020-2021, ovvero prima che un vaccino possa essere testato, prodotto e diffuso ad ampio raggio, il rischio sarebbe quello di trovarci di fronte a un ciclo economico a forma di W, oppure, come lo chiamano gli economisti, una recessione “Double Dip”, a doppio minimo.

Per quanto riguarda le regole sugli assembramenti, che influenzano tanti aspetti della vita sociale, permettetemi di citare Jan Dalley del Financial Times: “Anche se le restrizioni venissero mitigate, anche se il vostro teatro o il vostro festival musicale preferito dovesse aprire i battenti domani, voi ci andreste davvero? Quanto pensate che ci vorrà prima che vi venga voglia di tuffarvi in un cinema affollato, di ballare nella calca di una discoteca, di mettervi in fila in un bar per un sandwich, col rischio di farvi tossire in faccia da uno sconosciuto?”

Alcuni dei cambiamenti causati dal Covid-19 diventeranno permanenti, cambiando il volto della società. Lo Smart Working, il telelavoro da casa: probabilmente non finirà insieme alla crisi, almeno per qualche settore. Le fiere commerciali più importanti e tradizionali, che permettevano alle nostre compagnie di mettere in mostra il meglio del Made in Italy, dalla moda alla componentistica, forse non saranno più com’erano un tempo. Non del tutto almeno.

Le piattaforme digitali, gli showroom virtuali e l’e-commerce diverranno una parte ancora più “normale” dell’export. La moda e il design italiani subiranno forse l’influenza di una nuova sensibilità estetica, e la sostenibilità sarà ancora più importante di prima, così come, forse, l’ostentazione dei beni di lusso sarà meno sfacciata. In altre parole, è possibile che in diverse aree assisteremo a profondi cambiamenti, che dovremmo accettare, volenti o nolenti, perché non sarà possibile riprendere le vecchie abitudini fino a che un vaccino non solo verrà prodotto, ma anche distribuito almeno al 70/80 per cento della popolazione. E questo non succederà prima della metà o alla fine del 2021; forse bisognerà addirittura aspettare il 2022.

Rischi e opportunità

L’Italia, così come l’intero Occidente, nei prossimi 18-24 mesi sarà costretta a fare un salto in avanti che normalmente richiederebbe dieci, vent’anni, in termini di economia, organizzazione della società, utilizzo della tecnologia. Presto saremo testimoni di un riassestamento delle placche tettoniche su cui si poggia la società occidentale. Nel bene e nel male.

L’unica certezza è che il cambio di paradigma ci sarà. È inevitabile. E sotto certi aspetti, sì, potrebbe portare più meritocrazia. Se saremo costretti a reinventarci – negli affari, nella nostra stessa vita, nella nostra visione del mondo – allora forse ciascuno di noi dovrà diventare una “start-up”. E questo spalanca le porte a grandi rischi, ma anche a grandi opportunità.


Chi è Alan Friedman

Alan FriedmanGiornalista, conduttore televisivo, scrittore ed esperto di economia, è stato inviato dell’International Herald Tribune e editorialista del Wall Street Journal. Ha iniziato la sua carriera come collaboratore dell’amministrazione del Presidente Carter, ha ideato e condotto vari programmi Rai, ha lavorato all’ideazione e al lancio di Rainews24 e nel 2003 ha collaborato con Rupert Murdoch alla creazione di SkyTG 24. Nel corso della sua carriera giornalistica al Financial Times di Londra, Alan Friedman è stato insignito per ben quattro volte del British Press Award. Tra i suoi scoop più celebri la scoperta dello scandalo Iraq-gate, la vendita di armi a Saddam Hussein grazie ai finanziamenti illeciti effettuati anche tramite la Bnl, che hanno coinvolto la Cia. È autore di nove best-seller, compresa la sua ultima fatica “Questa non è l’Italia” edito da Newton Compton.

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